Marco Tullio Cicerone (3 gennaio 106 a.C. – 7 dicembre 43 a.C.) non è stato soltanto uno degli avvocati e statisti più illustri di sempre ma anche uno degli studiosi e sopratutto filosofi più acuti e profondi di tutti i tempi. I suoi moniti ed insegnamenti hanno formato e continuano a formare intere generazioni.
Questa è la sua visione del lavoro, valida allora come adesso.
Cicerone si occupa in maniera specifica del concetto del lavoro, principalmente, in due opere:
a) De officiis
b) Tuscolanae Disputationes
De Officiis
Il De officiis, diviso in 3 libri, è l’ultima opera filosofica di Cicerone ed è un trattato di etica dedicato al figlio Marco, il quale in quel momento conduceva i suoi studi in Grecia. Tale opera ciceroniana consiste in un’esposizione dottrinale sul come affrontare i diversi eventi della vita e contiene i moniti da osservare, secondo l’autore, in ogni situazione.
Nel primo libro Cicerone tratta il tema dell’"honestum" nel senso di "bene morale" che si sviluppa nelle cosiddette 4 virtù fondamentali (sapienza - giustizia – fortezza – temperanza) e propone una divisione netta fra quelle che sono le professioni lavorative da biasimare e quelle che sono da lodare.
In particolare, da un lato disapprova, principalmente, le attività degli esattori e degli usuarai: "Primum improbantur ii quaestus, qui in odia hominum incurrunt, ut portitorum ut feneratorum".
Da un altro lato, invece, indica quelle che sono le professioni che vanno considerate rispettabili e che richiedono le competenze più raffinate o che risultano molto utili alla società, come quelle del medico, dell'architetto, dell'insegnante di arti liberali:"Quibus autem artibus aut prudentia maior inest aut non mediocris utilitas quaeritur, ut medicina, ut architectura, ut doctrina rerum honestarum, eae sunt iis, quorum ordini conveniunt, honestae".
Infine, sceglie fra tutte le attività destinate al profitto economico quale per lui sia la più nobile, la più produttiva, la più gradita e quella più degna dell'uomo libero, cioè l’agricoltura: "Omnium autem rerum, ex quibus aliquid adquiritur, nihil est agri cultura melius, nihil uberius, nihil dulcius, nihil homine libero dignius".
Nel secondo libro, invece, Cicerone affronta il concetto dell’"utile". Per l’autore i comportamenti giusti, che si stabiliscono in base al criterio dell’utile, devono sempre esercitarsi in relazione alle 4 virtù fondamentali sopraindicate.
Da un’attenta e approfondita analisi e riflessione sui contenuti del libro, emerge in maniera chiara che secondo l’autore la giustizia non solo è necessaria ma risulta anche e soprattutto utile, perché produce vantaggi per tutti, anche dal punto di vista lavorativo.
In particolare, anche per coloro che svolgono attività economiche e sono coinvolti in trattative commerciali "la giustizia è necessaria per la trattazione di ogni cosa" e addirittura è talmente importante che neppure quelli che vivono di cattive azioni e scelleratezze possono vivere senza una qualche piccola misura di giustizia:"…contrahendisque negotiis implicantur, iustitia ad rem gerendam necessaria est, cuius tanta vis est, ut ne illi quidem, qui maleficio et scelere pascuntur, possint sine ulla particula iustitiae vivere".
Infine nel terzo libro, l’autore si adopera per risolvere il conflitto nella scelta di ciò che è stato trattato nei due libri precedenti, cioè fra l’utile e l’onesto. Con mirabile abilità di espressione ed esempi dimostra che tra l’"honestum" e l’"utile" non vi è contraddizione, ma identità: il primo produce direttamente il secondo.
Cicerone ritiene, inoltre, che tutti possiamo avere vera utilità soltanto dal compimento di azioni volte al conseguimento del bene comune e non esclusivamente orientate all'ottenimento di un vantaggio personale. Il lavoro viene, quindi, da lui inteso come strumento diretto al raggiungimento di tale risultato. Di conseguenza, per lui coloro i quali lavorano dovrebbero essere non solo giusti, ma dovrebbero sempre agire con onestà e mai anteporre il proprio tornaconto all’interesse della comunità, perché solo in tal modo possono trarre loro stessi il massimo vantaggio e risultato dal loro lavoro stesso.
Tuscolanae Disputationes
Le Tuscolanae Disputationes sono il capolavoro ciceroniano, redatto dopo la morte della figlia Tullia, nel quale l'autore si pone l’obiettivo di cercare di trovare una cura alla paura della morte e del dolore.
In dettaglio, l’opera si sviluppa in cinque libri nei quali vengono affrontati:
1. Il disprezzo della morte
2. La sopportazione del dolore
3. Il lenire la tristezza
4. Le altre passioni dell'anima
5. L’interrogativo se la virtù possa essere sufficiente da sola per vivere felici
Ogni argomento dà luogo ai titoli di ciascun libro.
Per continuare nello scopo che ci siamo prefissati e comprendere in profondita' la considerazione ciceroniana del lavoro anche in quest'opera, occore analizzare in maniera dettagliata il libro 2, nel quale l'autore conduce uno studio approfondito del concetto del "labor" (che come gia' ripetutamente illustrato indica "il lavorare sodo, impegnandosi con grande sacrificio") e del "dolor" (che invece indica "l'angosciosa sensazione di provare dolori e patemi, che si avverte davanti alle grandi difficolta' della vita") per poi trarne la distinzione e il punto di contatto fra l'uno e l'altro.
Il risultato di tale operazione consiste nel dato di fondamentale importanza che secondo Cicerone vi sia da arguire che il "labor" e il "dolor" siano senza dubbio affini ma non uguali e che tuttavia sussista qualche differenza fra loro: "Interest aliquid inter laborem et dolorem. Sunt finitima omnino, sed tamen differt aliquid".
Nel dettaglio, per Cicerone il "labor" è un "adempimento di un’attività dell’animo o del corpo molto gravoso" mentre il "dolor" è "un movimento aspro del corpo in contrasto con i sensi":"Labor est functio quaedam vel animi vel corporis gravioris operis et muneris, dolor autem motus asper in corpore alienus a sensibus".
Per Cicerone, inoltre, abituarsi al "labor" è nodale poiché la consuetudine al lavoro faticoso e al sacrificio rende più facile la sopportazione dei patemi: "consuetudo enim laborum perpessionem dolorum efficit faciliorem".
Alla fine però il dolore diviene inferiore al lavoro sodo, poiché con l’abitudine all'impegnarsi in maniera profonda per raggiungere un risultato, il lavoro annulla il dolore.
A tal proposito, è importante menzionare anche ciò che pensava Virgilio riguardo al valore e al merito del lavoro sodo nelle Georgiche: "Labor omnia vincit improbus et duris urgens in rebus egestas". Con il duro lavoro è possibile superare qualsiasi avversità e ottenere qualunque risultato.
In conclusione, quindi, sommando ciò che è tracciato in entrambi le opere ciceroniane possiamo trarre il pensiero completo e definitivo dell’autore riguardo il lavoro e cioè che il compimento di esso comporta due benefici basilari: aiuta l’essere umano a tollerare tutte le afflizioni e le sofferenze che la vita invitabilmente e inesorabilmente produce per tutti e se eseguito in maniera corretta facilita e rende possibile anche la realizazzione dell’interesse di tutti.
Il presente articolo è frutto di studi e ricerche condotte personalmente da Giuseppe Foti